Anima Mundi
C’è stato un tempo in cui l’uomo non si sentiva un sovrano, ma un figlio. La terra era viva, il cielo una dimora sacra, ogni elemento un frammento di un’intelligenza cosmica.
Platone, nel Timeo, descrive l'Anima del Mondo come un'entità divina, generata dal Demiurgo per infondere vita e ordine al cosmo. Essa è il principio vitale che anima l'universo intero, connettendo ogni sua parte in un'armonia indivisibile. Questa visione olistica del mondo, in cui l'uomo è parte integrante della natura e non un'entità separata e superiore, offre una potente antitesi alla frammentazione e all'alienazione che caratterizzano la nostra epoca.
Oggi viviamo in un’epoca di crisi ambientale senza precedenti: cambiamento climatico, perdita di biodiversità, inquinamento globale e sfruttamento delle risorse. L’attuale modello di sviluppo si basa su una visione meccanicistica della natura, considerata come un insieme di risorse da sfruttare piuttosto che un sistema vivente interconnesso.
L'uomo contemporaneo vive in uno stato di profonda alienazione dalla natura. Secoli di pensiero antropocentrico, di dominio e sfruttamento, hanno eroso il legame primordiale che lo univa al mondo naturale, lasciandoci smarriti in un labirinto di cemento e acciaio, anestetizzati da schermi luminosi e distratti da un flusso incessante di informazioni.
Questo progetto si fa contro narrazione. Il linguaggio fotografico viene usato non per documentare, ma per evocare, per disintegrare la logica dell’utile e riaprire lo spazio del possibile. Se il presente è il frutto di una frattura, Anima Mundi ricompone ciò che è stato diviso: l’umano e il non umano, il visibile e l’invisibile, il razionale e il mistico.
Riconoscere che la natura è viva, che è dotata di un’intelligenza propria, significa comprendere che il destino dell’uomo è intrecciato con quello di ogni forma di vita e che solo attraverso un rinnovato senso di interdipendenza possiamo sfuggire al collasso che abbiamo noi stessi generato.
Anima Mundi non è una risposta, ma una domanda. Non è una conclusione, ma un varco. È una possibilità di riscrittura, un invito a riconoscere che l’arte può ancora essere un dispositivo di trasformazione, un luogo di resistenza, un mezzo per risvegliare ciò che il presente ha cercato di rendere irrilevante: il sacro, il mistero, la connessione.